Butto giù questi pensieri con in sottofondo la consapevolezza che l’inverno stia andando via, con il suo lungo abito bianco che striscia sui prati. Uno strascico freddo che si allontana e che permette ai colori di riprendere vita e vigore come oggi, una delle calde giornate in cui è possibile sorseggiare un caffè all’aperto sentendo di nuovo gli abbracci caldi del sole.
L’atmosfera è simile a quella di un paio di settimane fa e, anche se non c’è un motivo reale e concreto, le sensazioni che affiorano sono quelle dell’ansia e del timore. Ho deciso di scrivere queste righe per esorcizzare queste sensazioni, per renderle tangibili e allontanarle come un insetto che mi ronza attorno con il suo pungiglione e che, se non mettessi su carta, resterebbe invisibile a infastidirmi.
Il 18 febbraio, come oggi, mia moglie Giovanna è uscita quasi all’alba e io mi sono ritrovato da solo, molto presto, a fare quelle cose che normalmente sono una sua premura, come accendere il fuoco e preparare il caffè.
Quel giorno ricordo di aver accumulato un po’ di ritardo nello svolgere queste incombenze che solitamente trovo già avviate o concluse e, conseguentemente, la mia attività di stretching quotidiana è stata svolta con una fretta insolita e, col senno di poi, inopportuna.
Ho iniziato a sentirmi poco bene. Un dolore intercostale mi impediva di completare il respiro, come se il fiato avesse paura di compiere il suo solito tragitto. Mi sono ritrovato a bordo bosco da solo e ho dovuto chiedere aiuto, a malincuore e controvoglia, ma non vedevo altre possibilità.
L’arrivo dell’ambulanza ha reso più reale un dolore che credevo solo mio, lo ha oggettivato e messo in condivisione come un file che vorresti mantenere segreto ma che, per un motivo o un altro, finisce per essere visibile a tutti sulla tua home page. Se da un lato era rassicurante non essere più solo, dall’altro era fastidioso perché era una sorta di resa, un cambio della guardia al timone di una nave che ora non era più in mio potere. Non ero più io a decidere, ma il medico e le sue strumentazioni che sul posto, fortunatamente, hanno scongiurato in prima analisi l’ipotesi di un infarto.
Le procedure imponevano che fossi comunque accompagnato in ospedale per un approfondimento e, con riluttanza, ho definitivamente alzato bandiera bianca. La mia riluttanza non nasceva solo da quel senso di resa, di perdita del controllo della situazione, ma anche per paure pratiche: in piena pandemia, una visita in ospedale comportava e comporta ancora oggi una serie di procedure e fastidi di cui avrei fatto volentieri a meno, anche solo per non gravare con la mia presenza su una struttura già ampiamente congestionata.
A cosa ho pensato durante il viaggio in ambulanza? Quali sigilli ha stracciato il guardare l’accesso in vena per eventuali usi futuri, con lo spettro della ricerca degli enzimi cardiaci che mi aspettava all’entrata del pronto soccorso? Ho pensato che quello potesse essere il mio ultimo giorno. L’ho pensato serenamente, come quando leggi un libro, dai un occhio veloce alle pagine che restano e capisci che la parola “fine” sta per arrivare. Ti dispiace perché è un bel libro, ma non vai in crisi. Ne prendi semplicemente atto.
Mi sentivo tranquillo, consapevole di aver fatto in vita quello che dovevo fare, di averlo fatto meglio che potevo ma sentivo, comunque, di avere delle situazioni aperte.
Il mio pensiero è andato a mio fratello, con cui avevo avuto una discussione e che non avevo ancora avuto tempo e modo di chiarire. Ho pensato a mio figlio, al viaggio della vita che avrebbe dovuto affrontare senza di me.
No, nessuna paura della morte. Terrore della malattia, degli ostacoli che la sofferenza ci può porre davanti in modo subdolo e inaspettato. Ma la morte non mi ha spaventato in quei momenti.
Sono stato svegliato dai miei pensieri da una frase che mi è stata detta al momento dell’arrivo: “Coraggio… stai entrando in ospedale, ma non è detto che non ne uscirai”. Mi sono guardato attorno e ho cercato con lo sguardo l’impresario delle pompe funebri, nel caso lo avessero già allertato, perché una frase del genere non era una buona introduzione.
Per non parlare degli sguardi e delle voci che commentavano il mio ingresso con frasi tipo: “Eh, ma è molto giovane… è così giovane”. Ora ho capito come si sente un dead man walking mentre si avvia verso il suo destino! L’autoironia: un’arma da avere sempre carica nella propria fondina…
Gli esami sono iniziati e per quelle operazioni potenzialmente dolorose ho utilizzato una tecnica che uso spesso dal dentista o in altre situazioni poco piacevoli: la dissociazione.
Con la dissociazione, convinci la mente a guardarsi dall’esterno; come se fosse una telecamera che riprende un set dall’esterno. Un drone che prende il volo e vede la scena da un’angolazione diversa, esterna. È una tecnica che aiuta a non essere così emotivamente coinvolti e ad allontanarsi anche materialmente dal dolore.
L’esame degli enzimi è andato bene, così come l’emogas in arteria e l’eco doppler cardiaco: potevo tornare a casa. Ho perciò salutato i professionisti che mi hanno seguito con estrema cura e attenzione e, nonostante le sbavature riguardanti l’aspetto emozionale, sono uscito dall’ospedale con animo sereno. La telefonata con mio fratello ha subito chiuso quella parentesi che, durante il viaggio di andata, temevo potesse restare aperta: la discussione ormai era solo un ricordo, chiarita e immatricolata tra i ricordi.
Rientrando, sollevato dal fatto che il cuore non fosse stato lo sceneggiatore di quella avventura ospedaliera, la mia mente ha virato bruscamente rispetto ai pensieri della mattina rivolgendosi ad un aspetto decisamente pratico: la gestione dei carichi professionali.
Per chi ha un’impresa, per chi è un professionista che ha la possibilità di decidere quanto e quando spingere sull’acceleratore e sul freno del suo lavoro, l’equilibrio sta tutto nella gestione delle richieste che arrivano.
Sono fortunato, lo dico sempre e lo ripeto anche qui. Sono fortunato perché da qualche anno a questa parte posso permettermi di rifiutare alcune richieste di collaborazione. Non è per snobismo, è solo per motivi pratici e oggettivi di tempo e di energie: non mi piace smaltire il lavoro come una pratica, come un dovere da compiere a prescindere dalla partecipazione e dal trasporto che puoi infondervi. Per questo, a volte, sono costretto a dire “no”. Quando i “no” sono tanti e si accumulano, può capitare di sentir crescere dentro un senso di preoccupazione, una “paura” sul come gestire questi rifiuti e non farli pesare su chi crede in noi e che ci cerca con fiducia.
Dopo questa avventura ho dovuto, per forza di cose, rallentare e annullare diversi impegni. Ho dovuto dire tanti “no”.
La ripartenza è stata lenta, ma c’è stata. Prova ne è questo articolo, che scrivo oggi che posso respirare senza la paura di un dolore che non c’è più, di un dolore causato da una caduta di un paio di mesi fa e che, in questo modo, fa ancor sentire la sua presenza nella mia vita.
Però è un dolore a cui devo dire grazie, perché mi ha ricordato come la vita non sia una corsa ma un gioco di equilibri in cui bisogna vivere i bei momenti con pienezza e, se si può, gestire nelle giuste proporzioni tra dovere e cura di se stessi.
Questo articolo probabilmente l’ho scritto più per me che per te, ma spero che sarai indulgente e perdonerai questo occasionale uso di uno spazio che dedico sempre alla tua crescita ma, forse, riuscirai a trovare un aspetto formativo anche tra queste righe così personali che, spero, siano state comunque una lettura utile e piacevole.
Ti trattengo un altro minuto per un invito.
Il 6 aprile 2021 si svolgerà un EQ café, un incontro social totalmente gratuito, che ha come titolo “Il senso di scopo che abbiamo nella nostra vita.” Voglio segnalartelo proprio alla luce dell’esperienza che ti ho appena raccontato, un momento in cui inizialmente ho pensato di essere arrivato al termine della mia corsa ma poi, svanito questo timore, sono stato raggiunto dalla consapevolezza di poter fare molto di più per migliorare il prossimo e la realtà che mi circonda. Incontriamoci e confrontiamoci, raccontiamoci il nostro purpose, esploriamolo e comprendiamone l’importanza anche codificando il ruolo che giocano le emozioni al suo interno. Con leggerezza e divertimento.
Per riservare il tuo posto clicca qui.
Ti aspetto!
Andrea
Caro Andrew, ricordo molto bene il tuo messaggio e foto ricevute mentre eri in ospedale. Condivido pienamente con te il concetto di gioco di equilibri che la vita ci fa perseguire e quando per. diverse ragioni ci spostiamo da una parte o dall’altra, il nostro corpo ci richiama all’ascolto e alla riflessione. Questo per poterci riequilibrare e continuare a realizzare il capolavoro della nostra unicità. Da queste esperienze si acquisisce saggezza, esperienza e senso di scopo.
Caro Andrea, dove caro è una parola piena di affetto, questo tuo scritto mi è esploso davanti come un lampo perché non sapevo nulla e mentre leggevo, per un attimo ho immaginato un altro futuro. Immaginare cosa hai provato, pensato, ascoltato. La tua calma consapevole è il frutto di chi vive realizzando man mano il proprio senso di scopo. Io sinceramente leggendo ho perso lucidità, per riacquistarla solo alla fine, quando sono tornata a sorridere e a voler pensare alle cose davvero importanti e che spesso non facciamo pensando sempre che ci sarà tempo e allora ecco che voglio dirti che ti voglio bene, che vi voglio bene e che tu e Giovi siete battiti del mio cuore.
Andrea, va bene che il titolo parla di questioni di cuore, però mi hai fatto prendere un colpo! Mentre riprendo il battito regolare, vorrei lasciare una riflessione su come, nella sua unicità e nel suo essere così crudo, il tuo racconto abbia fatto centro nei nostri cuori. Mi piace come hai riportato i fatti senza troppi giri di parole, ma soprattutto come hai condiviso le tue emozioni senza paura e senza veli, ricordandoci ancora una volta la loro umanità. Credo che ogni lettore non farà fatica ad immedesimarsi e sarà portato naturalmente a riflettere sul PROPRIO senso di scopo. Tu però lo accompagni in questo percorso, permettendogli di sfruttare la tua storia come schermo… Cosicché non corra il rischio di bruciarsi come la pelle sotto il sole di agosto nel fare il viaggio senza protezione. Tu l’hai scritto per te, ma come ormai abbiamo imparato, è solo quando ci curiamo di noi stessi che riusciamo a dare il meglio di noi agli altri. Ti abbraccio.
Grazie Maria Chiara! Avrei un mondo di pensieri ed emozioni da condividere! Faccio quello che ritengo saggio in questo periodo.
Sapere che ci sono persone come Te dall’Altra Parte mi responsabilizza e mi motiva. Credo davvero che queste risposte siano un regalo così come questi post credo abbiano davvero valore per chi sa leggere in profondità. A presto
Ciao Andrea, a dispetto di quanto tu possa pensare, trovo invece il tuo articolo molto formativo. Provo a condividere soltanto qualche riflessione che mi ha suscitato la sua lettura, probabilmente dettata anche da una mia deformazione professionale.
È molto bello (e lo invidio in senso positivo) il modo in cui descrivi la tua consapevolezza di aver fatto quello che dovevi e al meglio. Questo denota grande equilibrio.
Da medico, mi chiedo (senza alcun giudizio): come può un collega dimenticarsi di avere di fronte, prima che un paziente, una persona? Una persona in carne ed ossa, capace di sentire e capire, ma anche piena di paure e sopraffatta da tante emozioni estreme. Se si fosse realmente trattato di un infarto, quanto avrebbero impattato quelle frasi sulla tua pressione arteriosa e sulla tua frequenza cardiaca? Se un medico arriva a questo, senza rendersene conto, proviamo ad immaginare che malessere si cela dietro quella corazza. C’è un lavoro malato, che richiede sforzi e ritmi disumani, che comporta tante (troppe) rinunce, e che non lascia alcuno spazio all’empatia. Ma quella mancanza di empatia quanti danni fa? Non si può pensare di curare il corpo a discapito dell’anima. Purtroppo l’intelligenza emotiva non è innata, non tutti ne sono dotati, ma per fortuna almeno può essere allenata. Traspare chiaramente che quelle frasi ti abbiano segnato quasi più del dolore che hai provato. Mi capita continuamente di sentire lamentele di pazienti nei confronti di medici, non per la gestione clinica, ma per non essere riusciti a farsi ascoltare nell’unicità della loro condizione umana. E allora sono sempre più certa che l’intelligenza emotiva andrebbe ancor di più praticata, soprattutto in quei luoghi in cui ci si prende cura dell’altro. Tutti dovremmo impegnarci a realizzare e mettere in pratica quanto scrivi: “la vita non sia una corsa ma un gioco di equilibri in cui bisogna vivere i bei momenti con pienezza e, se si può, gestire nelle giuste proporzioni tra dovere e cura di se stessi”. Ciò per imparare a capire quando arriva il momento di mollare l’acceleratore e godersi la carezza di un raggio di sole accanto alle persone amate.